Il successo dell’omeopatia non è tanto caratterizzato dalla prova scientifica del metodo omeopatico, quanto piuttosto da un eccesso di presenza farmacologica nella cura del nostro organismo.
La farmacia deve integrare l’omeopatia, non come metodo scientifico, ma come attitudine dell’attenzione medica verso il paziente.
L’eccesso di farmacologia ha spinto il rapporto tra paziente e malattia verso una condizione di belligeranza nella quale il disturbo, la malattia stessa o la patologia sono viste unicamente come elementi estranei al nostro organismo.
Il farmaco allora è divenuto, spesso, un potente alleato con il quale combattere questa vera e propria battaglia e sin qui, non ci sarebbe nulla da obbiettare, visti i risultati della farmacologia dell’ultimo secolo.
Eppure il conto di questa riduzione del farmaco a pura “artiglieria” si è fatto sentire in maniera importante nel momento in cui l’accesso alla cura non è stato più vincolato al controllo di medici e farmacisti, trasformandosi in un rapporto tra consumatore e farmaco, esigendo una porzione sempre maggiore, in una massiccia autosomministrazione del farmaco, da parte del paziente stesso, che non corrisponde più all’equilibrio del nostro organismo.
L’omeopatia consente allora, ancor prima di cominciare qualsiasi discorso scientifico, clinico o terapeutico, di poter recuperare la relazione tra un farmaco e la sua somministrazione al paziente.
Sotto questo aspetto la pratica omeopatica può senz’altro insegnare molto alla farmacologia moderna, disciplinando il paziente e sottraendolo così al rischio di divenire mero consumatore di farmaci.